martedì 19 giugno 2007

Coscienza e autocoscienza.

E' possibile sperimentare la felicità?
Questo interrogativo mi ha portato ad alcune riflessioni sulla mia capacità di valutazione e di comprensione della realtà. Una lotta continua si muove dentro di me tra razionalità ed emotività. Sono le due componenti fondamentali del mio essere, che mi spingono avanti e mi trascinano indietro. Il contatto con il mondo esterno avviene in maniera diversa e complementare, tramite questi due filtri. La razionalità si arricchisce delle conoscenze e delle esperienze, l'emotività reagisce con forza agli stimoli esterni, palesando il mio intimo modo di essere. Ma fino a che punto può giungere il continuo confrontarsi con se stessi e con l'esterno, e dove conduce? L'assenza di consapevolezza permette una felicità più profonda? O non può esistere felicità che non sia comunque a confronto con la sofferenza? In fondo per distinguere qualsiasi cosa ho bisogno di un riferimento, del suo duale. La luce non esisterebbe se non ci fosse il buio. E così non posso apprezzare la felicità se non esistesse la sofferenza.
Per questo, a chi mi dice che un livello inferiore di coscienza della vita e del mio modo di essere mi porterebbe ad una maggiore felicità, quella felicità che possiede l'ingenuità di un bambino, rispondo che senza conoscenza non c'è libertà, possibilità di scelta. Ho sempre preferito sapere cosa mi aspetta e quello che mi accade intorno, piuttosto che vivere nell'illusione e nella menzogna. Magari tutte le energie che spreco per il mio desiderio di analisi e di sapere, potrebbero essere dedicate all'azione. Ma ogni azione è scoordinata e inutile se non controllata da una mente pensante.
Ho bisogno di conoscere, di sapere, è parte di me, non ne posso fare a meno.

5 commenti:

Hyxcube ha detto...

Ti cito:
"Per questo, a chi mi dice che un livello inferiore di coscienza della vita e del mio modo di essere mi porterebbe ad una maggiore felicità, quella felicità che possiede l'ingenuità di un bambino, rispondo che senza conoscenza non c'è libertà, possibilità di scelta."

In questa tua affermazione confondi la felicità con la libertà. Si puo essere felicemente "schiavi" e analogamente infelicemente liberi: il bambino è felicemente schiavo dei propri genitori, il credente è felicemente schiavo dei precetti che impone su di lui la dottrina che ha abbracciato. La questione quindi non verte sul fatto che un individuo sia o no libero bensì felice.
Ovviamente quando sei consapevole di non essere libero molto spesso sperimenti l'insofferenza di chi è costretto ma libertà e felicità giacciono su piani indipendenti.

Daniele ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Daniele ha detto...

Non credo che ci sia confusione in quello che ho scritto. Il discorso è complementare. La mia era un'analisi sui lati positivi e negativi dell'avere coscienza di sé e di ciò che ci circonda. E ho palesato il dubbio che si possa sperimentare qualcosa senza metterlo in relazione con il suo contrario.

Indiscutibilmente, condizione imprenscindibile per essere liberi è la conoscenza. Quando scrivo: "Ho sempre preferito sapere cosa mi aspetta e quello che mi accade intorno, piuttosto che vivere nell'illusione e nella
menzogna" voglio dire che la possibilità di scegliere e di capire è una delle motivazioni per cui preferisco avere coscienza piuttosto che non averla.

Sul legame felicità-libertà ho dubbi su quanto affermi. Essere credenti non vuol dire "essere felicemente schiavi", cioè seguire pedissequamente i dettami di una religione, ma percorrere un cammino spirituale. Quella a cui ti riferisci la chiamo superstizione o credenza popolare.

Ma a questo punto sorge un quesito. Cos'è la felicità? La mia definizione è "momento di assenza di sofferenza". Magari è una definizione ricorsiva, ma per ora altre migliori non ne ho trovate...

Hyxcube ha detto...

COn riferimento a questo periodo:
"Sul legame felicità-libertà ho dubbi su quanto affermi. Essere credenti non vuol dire "essere felicemente schiavi", cioè seguire pedissequamente i dettami di una religione, ma percorrere un cammino spirituale. Quella a cui ti riferisci la chiamo superstizione o credenza popolare."

Secondo te come lo "percorri il cammino spirituale"? sperimentando i comportamenti che più ti aggradano? Il "credere" non è l'"aderire" e capisci bene perchè: il primo comporta l'affidarsi dogmaticamente, il secondo comporta il vaglio della propria ragione prima di adottare certi comportamenti.
Quindi quando credi sei "schiavo" di qualcuno (Dio o chi per lui) perchè il credere ti priva del diritto di capire il perchè di quello che fai... ma non era questo il punto... i miei erano stupidi esempi per chiarirti il concetto che libertà non equivale e felicità.

Daniele ha detto...

Hai ragione, il tema è un altro, e mi pare di aver chiarito ciò che intendevo. E' evidente che i concetti di libertà e felicità non sono equivalenti. Il loro punto di contatto nel mio discorso era la coscienza che deriva dall'analisi della realtà. Dubito, comunque, che siano totalmente indipendenti.

La tua visione della religione è solo uno dei possibili punti di vista. Nonostante sia perfettamente cosciente della funzione prettamente di controllo sociale che ogni fede religiosa riveste, motivo per cui esistono i dogmi, sono altresì convinto che l'uomo possieda una spiritualità insita in sé, indipendente dalle sovrastrutture ecclesiastiche. Banalmente lo dimostra anche la religione cattolica, che si è evoluta proprio grazie a chi, mi vengono in mente due personaggi diversissimi come S. Francesco e S.Agostino, ha tentato di rompere con gli schemi imposti dai dogmi. Per questo sono incorsi nel rischio di scomunica e in attriti con i vari Papi. Come li consideriamo, come dei pazzi visionari? Credo che la ricerca di qualcosa che vada oltre le nostre limitate capacità sensoriali sia un'aspirazione a cui da sempre l'uomo ha anelato, e che continua anche oggi, nonostante sin dall'Illuminismo sia prevalso il primato della Ragione...
Ma qui il discorso si fa complicato e troppo fuori tema...